Da uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Oxford (Gran Bretana), dell’Università del Queensland (Australia) e del Texas (Stati Uniti) è emerso che due geni, denominati ERAP1 e IL23R, sono strettamente associati alla spondilite anchilosante.
Le osservazioni fatte dai ricercatori, pubblicate sulla rivista Nature Genetics, si basano sullo studio del genoma di più di 2000 persone affette da spondilite anchilosante e di altri 5000 individui che hanno costituito il gruppo di controllo. Questa ampia analisi ha portato a individuare ben sei regioni nel genoma associate alla malattia, due delle quali risultate particolarmente rilevanti, ovvero quelle dei geni ERAP1 and IL23R. Il
primo gene sembrerebbe avere un ruolo importante nel controllo dell’infiammazione. Su questo fronte agirebbe anche il secondo gene, per il quale è stato evidenziato in passato un coinvolgimento in altre condizioni come la psoriasi e le malattie infiammatorie intestinali. «Sospettavamo da tempo la presenza di una forte componente genetica nello sviluppo di questa malattia e ora abbiamo la prova di cui avevamo bisogno per procedere con ulteriori studi per delinearne al meglio le cause genetiche – commenta il professor Paul Wordsworth, coordinatore della ricerca -. In questo ambito c’è un forte bisogno di cure più economiche o alternative alle attuali». Per ora non esiste infatti una cura definitiva per questa malattia disabilitante. Per controllarne i sintomi e migliorare la qualità della vita ci si affida prevalentemente alla fisioterapia e all’uso di antidolorifici e antinfiammatori per ridurre il dolore e la rigidità. In pazienti selezionati che non rispondono a questo tipo di approccio si utilizzano anche i più recenti farmaci biologici con una conseguente lievitazione dei costi.
«Sono diverse le teorie su quali possano essere i fattori scatenanti di questa malattia, ma capire con esattezza quali geni sono coinvolti rappresenta un grosso passo in avanti che potrebbe portare sia allo sviluppo di nuovi farmaci sia a una diagnosi più precoce, cosa di cui si ha urgentemente bisogno – osserva il professor Alan Silman, direttore medico dell’Arthritis Research Campaign, che ha in parte sovvenzionato la ricerca -. Alcuni pazienti arrivano ad aspettare fino a 10 anni per ricevere una diagnosi corretta». La spondilite anchilosante esordisce in genere in soggetti giovani con un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Proprio a causa dell’età in cui si manifesta, l’esordio e la diagnosi rappresentano una sfida difficile. I principali fattori responsabili di una diagnosi tardiva sono rappresentati soprattutto dalla scarsa intensità del dolore, dai frequenti periodi di spontaneo miglioramento che sono possibili all’esordio e dalla sottovalutazione del sintomo per la sua grande prevalenza nella popolazione generale.