La qualità della vita può peggiorare sensibilmente quando si è affetti da una qualche malattia. Lo sperimentiamo anche quando abbiamo soltanto una banale influenza che ci costringe a letto. Ma che dire quando le malattie sono più serie e assumono connotati invalidanti, come nel caso dell’artrite reumatoide? Lo sconforto che può colpire chi ne soffre, in questi casi è più che comprensibile.
A mettere in evidenza il disagio e quanto questa patologia possa essere difficile da gestire è un sondaggio promosso dall’Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR) e realizzato grazie al supporto di Bristol-Myers Squibb. L’indagine si è svolta sia online che per mezzo di questionari in forma cartacea distribuiti a 16 centri di cura della Penisola. Nel totale sono state elaborate 533 risposte (293 via internet e 240 provenienti dalle strutture).
I dati raccolti fanno emergere come la malattia influisca sulla qualità della vita per il 93% dei pazienti colpiti, mentre per l’85% influisce sulla capacità di compiere i più semplici gesti quotidiani, come aprire una bottiglia, svolgere attività domestiche, salire le scale, vestirsi o lavarsi. Con pesanti ripercussioni, visto che perdita di autonomia, peggioramento dei sintomi e necessità di sostegno da parte di una persona sono le più temute tra le possibili conseguenze della patologia.
L’artrite reumatoide si manifesta all’inizio con un dolore alle articolazioni che, progredendo, tende a diventare invalidante. Per l’84% dei pazienti influisce sull’attività lavorativa e il 23% perde più di 3 giorni lavorativi al mese quando la malattia è fuori controllo.
Oggi sono tuttavia disponibili terapie in grado di alleviare i sintomi e arrestare la progressione del danno alle articolazioni. In particolare, i farmaci biologici possono modificare radicalmente la qualità di vita, in quanto, con il loro uso precoce, oggi è possibile ottenere la remissione della malattia: “normalizzano” il processo infiammatorio e la tengono sotto controllo nel tempo.
La voglia di sentirsi “normali” e ritrovare la propria quotidianità è molto sentita dai pazienti e oggi lo possono fare, aiutando il medico nel monitoraggio intensivo, fondamentale per raggiungere l’obiettivo di un miglioramento progressivo con un effetto duraturo. Attraverso la compilazione di una semplice scheda durante le visite di controllo, i pazienti sono in grado di misurare autonomamente i miglioramenti nel tempo dei piccoli gesti quotidiani determinati dalla terapia. Il monitoraggio costante favorisce infatti la riduzione della “disabilità” e il ritorno ad una vita di relazione normale. Con l’ulteriore vantaggio che i pazienti si sentono “protagonisti” nel controllare l’evoluzione della patologia.
In Italia si stimano circa 300mila casi e le donne (in particolare in età fertile, tra i 35 e i 40 anni) sono maggiormente colpite con un rapporto di 4:1. L’impatto dell’artrite reumatoide è purtroppo alto, perché il dolore alle articolazioni, la rigidità mattutina, la stanchezza, la fatica di affrontare la giornata con l’eventualità di una disabilità permanente possono comportare cambiamenti significativi nello stile di vita. A ciò si accompagna il rischio di perdere l’occupazione. Entro 10 anni dalla comparsa dei sintomi, la metà dei pazienti non è più in grado di svolgere un lavoro a tempo pieno. La diagnosi precoce è divenuta una tappa fondamentale nella strategia terapeutica e i malati ne sono perfettamente consapevoli. Il 93% di coloro che hanno risposto al questionario ritiene che campagne informative e attività di sensibilizzazione potrebbero facilitare la diagnosi precoce e la migliore gestione della malattia. Esiste una sorta di “finestra” entro la quale un intervento aggressivo dei primi sintomi può determinare un risultato ottimale nel lungo periodo. Una corretta impostazione terapeutica, ottenuta attraverso una diagnosi precoce nelle prime 8-12 settimane dall’inizio dei sintomi e una rigorosa valutazione della risposta alle terapie consentono oggi di ottenere una stabile remissione della malattia in oltre il 50% dei casi.
Lo specialista è il punto di riferimento con cui i pazienti desiderano condividere la scelta della terapia e le sue implicazioni, nonché i dubbi e le paure relativamente agli sviluppi futuri della patologia. Fondamentale anche il ruolo di Internet. In caso di dubbi sulla malattia, ben il 65% dei malati che hanno risposto on line si rivolge a siti web, forum online e social network. Non tutti coloro che hanno partecipato al sondaggio appartengono a un’associazione di pazienti, ma ben il 23% (quasi uno su 4) di quelli che hanno risposto on line vorrebbe farne parte in futuro.